Speciali

Jules Renard

Secolo XIX
Francia

L'Autore - Jules Renard
Nato a Châlons-sur-Marne (Mayenne) nel 1864, morì a Parigi nel 1910. Non sufficientemente apprezzato in vita, fu noto soprattutto per la lunga novella Poil de Carotte del 1894 (poi film di J. Duvivier nel 1932), una storia morale un po’ lacrimevole come si usavano in quella fine di secolo; ma il suo capolavoro sono le Histoires Naturelles, del 1896.
Altre opere: Diario 1887-1910, Bucoliche, Il Signor Vernet, Il Vignaiolo nella sua Vigna, La Repubblica del 1848, Il Parassita.

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Con stile scarno e completamente scevro da retorica, Renard si trasforma in “cacciatore di immagini” e cattura come un pittore impressionista ciò che la natura pone sotto i suoi occhi. Cominciando dalle bestie domestiche del cortile per finire con i serpenti e i rospi, le farfalle, i fiori, le piante dell’orto, gli alberi. Classico esempio di poesia in prosa.
Il brano che apre l’opera, Il cacciatore d’immagini, è una specie di manifesto programmatico riguardante la disposizione d’animo conveniente durante una passeggiata nella natura.
L’ultimo brano della mia scelta è quello che chiude effettivamente l’opera.
Cinque delle Storie Naturali furono scelte da Maurice Ravel come testo di cinque eleganti liriche per canto e pianoforte

“Preziose a volte, e spiritosamente epigrammatiche, fino alla concisa definizione del serpente (“TROPPO lungo”), Renard dice anche la sua pietà per gli uccelli, col suo rimorso di cacciatore insaziato, e il fraterno affetto per gli alberi solitari e taciturni.” (Vittorio Lugli).

IL CACCIATORE D’IMMAGINI

Balza dal letto di buon mattino, e parte soltanto se ha la mente lucida, il cuore puro e il corpo leggero come un abito estivo. Non porta provviste con sé. Berrà l’aria fresca, in cammino, e aspirerà i salubri odori della campagna. Lascia a casa le armi e si accontenta di aprir bene gli occhi. Gli occhi servono da reticelle dove le immagini si imprigionano da sole.

La prima immagine che egli cattura è quella del sentiero che mostra le proprie ossa, ciottoli lisi, e le carreggiate, vene aperte, fra due siepi ricche di more e di pruni.

Poi coglie l’immagine del fiume che biancheggia ai gomiti e dorme sotto la carezza dei salici; un pesce, che fa la capriola, lo rompe in scaglie di specchio, come una moneta d’argento gettata nell’acqua; quando cade la pioggia fine, il fiume ha la pelle d’oca.

Poi il cacciatore snida l’immagine delle mobili mèssi, delle distese di gustosa erba medica, delle praterie orlate di ruscelli. E coglie, passando, il volo di un’allodola o di un cardellino.

Ora entra nel bosco. Non sapeva di aver sensi così delicati. Assorbe subito ogni profumo, non perde un bisbiglio, un tonfo, e, per comunicare con gli alberi, i suoi nervi si intrecciano alle nervature delle foglie.

Ben presto, vibrando fino a star male, fermenta, ha paura: lascia il bosco e segue di lontano i boscaioli che tornano al villaggio.

Fuori, fissa per un istante, fino a sentirsi scoppiar l’occhio, il sole che si corica e si spoglia all’orizzonte delle sue vesti luminose, delle sue nuvole, sparse alla rinfusa.

Infine, tornato a casa, con la testa piena, spegne il lume, e a lungo, prima di addormentarsi, egli si diverte a ripassare le immagini raccolte.

Docili, esse rinascono nel ricordo. Ciascuna ne risveglia un’altra, e, senza sosta, il loro corteo fosforescente s’accresce di nuove venute, come tante pernici che, inseguite e divise per tutto il giorno, alla sera cantano al sicuro dal pericolo, e si richiamano nel cavo dei solchi.

IL BRUCO

Esce da un ciuffo d’erba, dove s’era nascosto durante il caldo.

Attraversa il canale di sabbia, con grandi ondulazioni. Si guarda bene dal fermarsi; e, per un istante, si crede perso nell’orma dello zoccolo del giardiniere.

Raggiunte le fragole, si riposa e leva il naso a destra e a sinistra per fiutare l’aria; poi riparte, e sotto le foglie, sopra le foglie, sa finalmente dova va.

Che bel bruco, grasso, vellutato, impellicciato, bruno, picchiettato d’oro e con gli occhietti neri!

Guidato dall’olfatto, si stende e si corruga come un folto sopracciglio.

Si arresta ai piedi di un rosaio.

Con quei suoi uncini sottili, tasta la scorza ruvida, dondola la testina di cane neonato, e decide di arrampicarsi.

E, questa volta, diresti che ingoia a fatica ogni tratto del cammino, deglutendolo.

Sulla cima del rosaio si spampana una rosa dall’incarnato di candida fanciulla. La rosa si inebria del profumo che esala; non diffida di nessuno. Lascia salire su per lo stelo il primo bruco che capita. E l’accoglie come un dono.

Presentendo il freddo della notte, le fa piacere di avvolgersi un boa attorno al collo.

LA FARFALLA

Questo biglietto galante, piegato in due, cerca l’indirizzo di un fiore.

NEL GIARDINO [scelta]

I fiori: «Ci sarà il sole, oggi?»
Il girasole: «Sì, se lo voglio».
L’annaffiatoio: «Scusi: se vorrò io, pioverà. E pioverà a torrenti, se mi tolgo lo spruzzatore».

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Il rosaio: «Oh! Che vento!»
Il palo di sostegno: «Ci sono io».
Il lampone: «Perché le rose hanno le spine? Forse che si mangia, una rosa?»
La carpa dal vivaio: «Ben detto! È perché mi mangiano che pungo con le mie lische».
Il cardo: «Sì, ma troppo tardi».

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La rosa: «Ti sembro bella?»
Il calabrone: «Bisognerebbe vedere sotto».
La rosa: «Entra».

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Le violette: «Siamo tutte ufficiali di accademia»
Le violette bianche: «Ragione di più per essere modeste, sorelle mie»
La rapa: «Sicuro! Mi vanto forse io?»

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Lo spinacio: «Io sono l’acetosella».
L’acetosella: «Ma no, sono io».

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La cipolla: «Oh, che cattivo odore!»
L’aglio: «Scommetto che è ancora il garofano!»

I PAPAVERI

Spiccano tra il grano, come un esercito di piccoli soldati; ma di un rosso molto più bello; e sono inoffensivi.

La loro spada è una spiga.

Chi li fa correre è il vento; ed ogni papavero si attarda, quando gli pare, sull’orlo del solco, col fiordaliso, suo compaesano.

LA VIGNA

Tutti i suoi tralci, col paletto dritto, fanno il presentat’arm. Che aspettano? L’uva non spunta ancora, quest’anno, e le foglie di vite, ormai, non servono che alle statue.

UNA FAMIGLIA D’ALBERI

Li incontro, dopo aver traversato una pianura bruciata dal sole.

Non abitano lungo la strada, per via del rumore. Abitano in mezzo ai campi incolti, accanto ad una fonte nota solo agli uccelli.

Di lontano, sembrano impenetrabili. Come mi avvicino, invece, i tronchi si disserrano.

Mi accolgono circospetti: posso riposarmi, rinfrescarmi, ma indovino che mi osservano con diffidenza.

Vivono in famiglia: i più vecchi in mezzo, e i piccoli, quelli che mettono appena le prime foglie, qua e là, tutto intorno, senza allontanarsi.

Son duri a morire, e i morti li conservano in piedi fra loro, finché cadono in polvere.

Si accarezzano coi loro lunghi rami per assicurarsi di esserci tutti, come i ciechi. Si sbracciano in gesti di collera, se il vento soffia da sradicarli. Ma non leticano mai fra di loro. Mormorano tutti insieme, d’accordo.

Sento che questa sarebbe la mia vera famiglia: l’altra sarebbe presto dimenticata.

Questi alberi mi adotteranno a poco a poco, e per meritarlo imparerò ciò che bisogna sapere.

Già so guardare le nuvole che passano: già so stare fermo e ho quasi imparato a tacere.

Da: STORIE NATURALI (Trad. dal francese di Luisa Baldacci - Ed. Longanesi & C. - Milano 1951)

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